“Ricordare è oggi un gesto di educazione, una sfida personale alla dittatura del presente che ci fa tutti informati e distratti, condannati a oblio repentino.”
Nell’introdurre la memoria di due tristi ricorrenze d’inizio anno di poco più di un secolo fa, facciamo nostre queste parole dello scrittore Marco Paolini per arginare certa disinformazione storica che oggi, come ieri, primeggia in molti ambiti. Si confondono date, avvenimenti e motivazioni poiché, troppo spesso, ci si dimentica di documentarsi adeguatamente.
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Il periodo a cavallo tra il XIX e il XX secolo fu segnato a Ruvo di Puglia, come in molte altre cittadine d’Italia, da una serie di tumulti e agitazioni popolari scaturiti dalla miseria e dallo stato in cui si viveva in quell’epoca. Se da una parte il progresso tecnologico permise l’arrivo nelle cittadine dell’elettricità e del telegrafo, dall’altra orde di lavoratori delle campagne sentivano i loro diritti calpestati e la loro dignità schiacciata. Le rivolte, partite dalla Sicilia, culminarono con l’attentato al Presidente del Consiglio Francesco Crispi del giugno 1894.
Incendi, morte e distruzione: l’8 gennaio 1894
L’agitazione popolare ruvese raggiunse il suo picco l’8 gennaio del 1894 quando furono assaltati e incendiati diversi edifici comunali. Raccontano gli avvenimenti le colonne del Corriere delle Puglie:
Verso le ore 18 del giorno 8 corrente poche centinaia di contadini, fra cui si notavano molti ragazzi, si recarono nel punto detto Caprera, sulla provinciale Corato Ruvo, e avvalsero un corto tratto di binario del Tramvia Bari Barletta; ritornati in città, si recarono innanzi al circolo Garibaldi, invitando i soci a mettersi alla loro testa per iniziare una dimostrazione. Al rifiuto dei Soci di accondiscendere a tale richiesta, la folla vociando e gridando si recò al Circolo Unione di cui fa parte l’aristocrazia e l’alta borghesia ruvese, al grido di Viva Imbriani, Viva la Sicilia. Ben presto volarono dei sassi, ed il Circolo Unione, abbandonato dai Soci, venne invaso dai tumultuanti, che, padroni del campo, incendiarono completamente tutto quanto rinvennero.
Aumentava nel frattempo il numero dei rivoltosi, e quasi raggiungeva il migliaio e la prima facile vittoria l’animò a maggiori imprese. Vennero quindi assaliti l’ufficio del Dazio Consumo e quello vicino della Commissione Censuaria, e bruciati completamente.
Nel frattempo parte della folla si dirigeva verso il locale delle Carceri giudiziarie, dove si trovavano 13 detenuti. Inutili riuscirono le preghiere del carceriere, poiché la folla, fatta empite contro il cancello, in breve lo ebbe atterrato, e liberava 9 detenuti.
Continuavano in questo mentre le devastazioni e gli incendi; e così venivano distrutti il Municipio, l’esattoria di fondiaria, la casa dell’Esattore, l’Archivio Notarile Mandamentale, e la Banca Agricola.
In quest’ultima furono distrutti l’archivio, i registri di ragioneria, l’archivio della Congregazione di Carità e di altre opere Pie concentrate presso la Banca, nonché molti effetti cambiari, che trovavasi fuori la Cassa forte perché in sofferenza e nell’ufficio del Direttore, del valore di circa 15 milioni.
Per maggiore disavventura la turba briaca era in quel momento completamente padrona del campo giacchè la poca forza, cui è affidata la sicurezza pubblica a Ruvo, si trovava lontana dal luogo degli avvenimenti. E ciò perché, conosciuta la rottura del binario, il brigadiere s’era affrettato ad accorrere sul luogo unitamente ai quattro carabinieri per prevenire delle possibili disgrazie.
Ma neppure questa lodevole preveggenza valse a nulla. Il deragliamento del treno, proveniente da Corato, era già avvenuto, la Dio mercè, senza alcun danno per le persone; i macchinisti però devettero la propria salvezza ad un vero miracolo.
Allorchè i carabinieri facevano ritorno in paese, trovarono un forte gruppo di tumultuanti vicino al circolo Garibaldi.
Compresero che grossi gui avvenivano e corsero immantinenti ad armarsi, cercando di sedare con belle maniere la folla esaltante.
Vani riuscirono però quei tentativi perché i tumultuanti, dopo l’incendio della Banca Agricola, cercarono di appiccare il fuoco all’attigua caserma dei Carabinieri, i quali, riusciti a guadagnare l’entrata e barricare il portone, s’affacciarono dalle finestre intimando alla folla di ritirarsi.
Gli urli e le imprecazioni salivano al cielo, e la voce dei carabinieri si perdeva in quell’assordante e selvaggia baraonda. Si pensò allora di sparare in aria per intimorire; ma fu peggio, perché più la folla si esasperava e minacciava di atterrare il portone.
Fu allora che i carabinieri tirarono sulla folla, la quale – visto che si faceva sul serio – si disperse. E’ doloroso però il constatare che si ebbero tre morti e molti feriti […]
Certo è che fu necessario lo spargimento del sangue per poter riottenere la calma.
[…] Come vi ho di già telegrafato, la causa di tali tumulti va cercata nel malcontento del popolo, fanatizzato dai soliti sobillatori.(1)
La tragica conclusione della rivolta popolare dell’8 gennaio, raccontata anche in un’opera teatrale musicata dal maestro Michele Cantatore, stese un velo d’ombra e di tristezza sulla città di Ruvo. Il dì seguente, la cittadina si mostrava “assai triste, che vi stringe il cuore. Parrebbe che un esercito devastatore sia passato su questo disgraziato paese, come al tempo delle orde barbariche. Tutti i fanali pubblici ridotti in frantumi, gli alberi sradicati, gli uffici pubblici ridotti un mucchio di desolanti rovine, attraverso le quali ogni tanto guizza qualche lingua di fuoco, quasi voglia dare l’ultimo sguardo alla sua opera nefasta”.(2)
Il tragico epilogo delle lotte politiche: il 5 gennaio 1908
Passarono solo 14 anni dai fatti narrati e la città, negli stessi giorni d’inizio anno, si ritrovò catapultata in un altro turbine malvagio di proteste, originate stavolta da ben altre motivazioni.
Il 5 gennaio 1908 le lotte politiche tra i due partiti principali della città si acuirono e sfociarono in due dimostrazioni di protesta. Due cortei si affrontarono nel largo del Castello e le immagini, raccapriccianti, di quelle lotte fratricide si meritarono la copertina a colori della Tribuna Illustrata del 19 gennaio dello stesso anno. Il racconto dettagliato dei tragici fatti fu pubblicato nella prima pagina del Corriere delle Puglie di martedì 7 gennaio che titolò a tre colonne: “Tre morti e tre morenti a Ruvo. Il gravissimo conflitto di domenica sera”.
Il racconto del cronista sembra descrivere pedissequamente la scena disegnata sulla copertina del settimanale:
Nelle viuzze i dimostranti si rincorrevano fra loro sparandosi revolverate e colpendosi con coltelli e armi contundenti.
La truppa (dei militari) si inoltrò dovunque; i reparti si divisero ed iniziarono un inseguimento tendente a portare tutti al largo e disperderli con cariche alla baionetta. I dimostranti però scagliarono pietre contro i soldati e continuarono a minacciarsi fra loro.
Ad un angolo del vicolo Gervasio, vicino ad un portone, si udì un’imprecazione, poi un gemito soffocato e si vide cadere Summo Pasqua di anni 50, contadina, colpita da una pugnalata in petto.
Fu raccolta moribonda e dopo pochi istanti spirò.
In piazza Municipio, e precisamente sotto Porta Castello, fu visto nella folla un vecchio barcollare, poi levare le braccia in alto, e poscia stramazzare al suolo colpito da una revolverata.
Era il settantacinquenne Francesco Testini che fu raccolto cadavere.
Gravemente ferito fu anche raccolto Giuseppe Cosuro di Domenico, di anni 33, barbiere, colpito da arma bianca. Una sassata ferì il carabiniere di Bari, qui di rinforzo, Musacco Vito, mentre con altri militi tentava di sbandare alcuni gruppi di tumultuanti.
Sparsasi la notizia dei morti raccolti, l’impresso prodotta fu vivissima: alcuni contadini si escerbarono maggiormente ed avrebbero provocati altri gravi avvenimenti, se la forza non avesse con grande energia evitato ogni altro assembramento di persone.(3)
La tragicità dei momenti e le conseguenze ebbero presto eco nazionale, con interpellanze parlamentari e strascichi giudiziari. Come sottolinea il quotidiano barese:
“Ruvo, sempre, antesignana nella provincia, dà l’esempio, il tristissimo esempio di lotta fratricida, per cui gente allevata all’ombra del medesimo campanile scende in piazza, agitata, e in un momento di esaltazione collettiva, si abbandona all’odio cieco che non sa ragione, alla ferocia che disconosce ogni diritto alla vita degli altri. E al di sopra di questa lotta, nella mischia che lascia sul terreno cuori infranti, cranii spezzati, si fa sventolare una bandiera di conquiste democratiche, la bandiera della pace laboriosa che copre tutti gli istinti brutali, le ire represse, gli odi che covano, le rappresaglie che aspettano il momento buono per insanguinare le vie.”(4)
Parole che sembrano essere state scritte oggi, in un mondo ancor di più segnato dalla paura dell’altro e delle sue differenze.